Da quando ci sei sei parallelo alla mia linea del destino. A un certo punto è successo, la mano ha premuto troppo forte dove non avrebbe dovuto e non ha saputo fermarsi in tempo. Le mani quasi mai sanno fermarsi in tempo. Così ora ti porto addosso come un segno.
C’è un momento in cui sulla pelle sei come un taglio coperto di c(‘)era, una linea dritta e bianca. Poi mi fai male, perché non ti hanno mai insegnato altro modo per far sentire che ci sei, un modo diverso da questo stillare rosso che brucia come se non ci potesse mai aprire un varco, da nessuna parte, senza mietere qualche vittima.
Ti auguro di essere così, sempre: come una bocca mai chiusa, perché tanto anche se la bocca viene tappata la domanda resta sospesa quindi tanto vale non serrarla, così a braccia parte come lembi di una ferita, ma aperte per accogliere ciò che fa bene, non ciò che fa male.
Ti auguro di essere, in questo momento esatto della tua vita, come la pelle quando preme troppo forte contro qualcosa e così, per quanto sia elastica, a un certo punto non ce la fa più.
Ti auguro di essere arrivato al punto di rottura perché a volte pensiamo che le cose (tutte le cose) vadano preservate a tutti i costi ma le cose veramente forti si temprano di più se ne metti alla prova la tempra. E ciò che è (e ti rende) debole è bene si rompa, ché tanto non andrà del tutto perduto perché nulla si (crea e) distrugge. Tutto si trasforma.
Mi piacerebbe tanto se mi portassi con te nella tua trasformazione. Guardiamo insieme come?
Aspetta! Prima c’è per te una lettura propedeutica, anzi pure un’altra lettura da sbarramento e sbarellamento
Accidenti, c’è anche da leggere questa roba qua sulla scrittura che ti fa strappare i capelli e un’altra sui campi di concentrazione in cui si raccolgono litbox invece di cotone
Ok, puoi andare.
Ah, no, un attimo, qualora ti stesse ronzando in testa questa domanda, sì, parlo di un taglio. Vero. Quante licenze poetiche.
Calendario Magnonico
I giorni non sono abbinati ai mesi e non finiscono a 30 o a 31 e neanche a 28
Perché il Calendario Magnonico è un accanito sostenitore della teoria secondo cui non è che il primo del mese è quando il calendario (l’altro, quello che si merita solo una minuscola) decide che sia il momento di iniziare. No. Un mese nuovo inizia quando tu inizi qualcosa di nuovo. Un mese nuovo inizia quando tu ti senti nuovo. Almeno un po’. Quindi se il mese non inizia quando dovrebbe non vediamo (noi strani visionari) perché non può anche finire quando vorrebbe. Insomma, te lo ricordi che prima della maturità c’era il conto alla rovescia dei cento giorni? E poi il cento è sempre lì, come un numero che significa qualcosa (come se, in fondo, non significasse ogni cosa qualcosa). Per questo nel Calendario Magnonico ci sono tre centini. Ok, lo so, un anno ha più di 300 giorni, lo so. Solo che abbiamo tutti i giorni buttati. Quei giorni che se fosse possibile chiederemmo la possibilità di rifarli perché non li abbiamo capiti. Quei giorni in cui non sappiamo cosa fare e in cui anche se sapessimo cosa fare non sapremmo come farlo. Sono i giorni buca, quelli dove ci cadi dentro al mattino, appena sveglio e non te ne tiri fuori fino al giorno seguente. Sono i giorni che hanno dato buca a te e tu sei rimasto in un angolo della fermata del tram con una pianta grassa in mano come bouquet di promesse. Il primo bouquet del Calendario Magnonico con cento spine tutte da sfogliare sarà quindi fatto di giorni che hanno solo un numero progressivo. Giorno 1,2,3, (devo arrivare a 100?). Puoi iniziare quando vuoi. E se un giorno ti sembra un giorno adatto a entrare nei giorni persi questo andrà a finire tra i 60 e rotti giorni in cui ti si è rotto qualcosa dentro e allora hai pensato che sarebbe stato inutile continuare a trascinare la giornata come si trascinerebbe una macchina con le gomme a terra e allora invece che continuare a ostinarti a giocare con un palloncino bucato hai pensato di far passare del tempo per vedere se quei buchi neri da cui non passa né luce né niente si sarebbero chiusi da soli come occhi assonnati. E ogni giorno è figlio di quel cielo sporco di bel tempo o pulito di tempo cattivo e figlio di uno spu(n)to, una storiella, un raccontino, un aneddoto, una poesiola senza rime, una poesiola con le rime, qualcosa che ti do come se fossimo a cena insieme e io ti porgessi un biscottino della fortuna oppure come se fosse inverno e tu avessi la gola in fiamme e io mettessi sul fuoco il tè con in cima alla bustina, nella parte che ti permette di far fare su e giù alla bustina, con, in questo punto esatto dove si incontrano le tue dita, stampate le parole che le mie hanno partorito. Così, ogni giorno. Vuoi?
Quaderno del disappunto
Ogni volta che faticate per mettere per iscritto la fiera dei buoni sentimenti (finti) una dollfie (cattiva) muore
Pagine che dovrebbero traboccare di gratitudine. Un tripudio di “tutto è bellissimo, fare quello che voglio è facilissimo, io sono un essere speciale, love is on the air, volemose bene”. Una festa senza droghe in cui l’unica droga è la sottile e pacata e candida assuefazione a questa perfezione sorda e cieca e muta. Ma poi è davvero così? Magari funziona meglio pensare a cinque cose impossibili prima di colazione e poi la colazione saltarla, prendere il primo treno (questo del treno sta diventando un tema ricorrente), scendere dai binari e fare una foto invadente, solo con gli occhi, ai ragazzi che si baciano, alla stazione, a chi saluta con poca convinzione e poi neanche girare per la città, limitarsi a tornare a casa, perché è bastato sentire di poterlo fare, di potersi permettere almeno per un istante il lusso di cambiare strada, di deviare, di cambiare destinazione come fa il protagonista nell’Eterna Letizia Della Mente Candida. E lui lo fa per tirare fuori dalle rovine della memoria la sua personalissima Atlantide. Tu non sei certo di avere Atlantide che ti nuota dentro. Ma sei abbastanza sicuro di avere le rovine. C’è una malattia terribile che ha un nome lungo, si chiama Fibrodiplasia Ossificante Progressiva, e in pratica succede che inizia a creascerti dentro osso dove non dovrebbe e allora tutto ciò che ti è sempre servito (ossia ogni tuo osso, che costituisce il tuo scheletro, che è il tuo sostegno) diventa tuo nemico giurato perché è fuori posto, è nel contesto sbagliato, è troppo, è inadeguato. Quando lasci che le pietre su cui fondi la tua vita, il tuo pensiero, crescano ovunque, crescano a dismisura, finisci col lasciare che tutto dentro te soffochi, muoia, venga imbrigliato, strozzato, bloccato finché ti manca inevitabilmente il fiato. A meno che tutto questo veleno lo sputi fuori come se la storia di incidere la ferita del morso del serpente e poi succhiare il sangue per sputarlo via funzionasse a meraviglia. Il quaderno del disappunto nasce per avere l’occasione di dire che non va bene niente. Per niente. Quel meraviglioso lusso che è poter battere i piedi, mettere il muso, incrociare le braccia, scuotere la testa in segno di disappunto e dire che non si ha voglia. E non solo. Dire perché non si ha voglia. I 100 fogli del quaderno del disappunto (uno per ogni giorno del calendario magnonico ma se non ti bastano puoi appicicarci su tutti i post-it che vuoi) sono fatti appositamente per questo: per riservare fuori tutto quello che ti blocca, ti uccide dentro e pure un po’ fuori. E saranno 100 spunti speciali, presi direttamente dai 10 disturbi di personalità, a spronare la tua vena lamentatoria per 100 volte.
Raccontami di…
Te, anche se non ti sei sposata e non hai un bambino che somiglia a te ma hai parole strane e tanto caffè
Se sei stato un lettore modello non hai sfilato lungo l’introduzione dell’articolo saltando le letture propedeutiche. Lo hai fatto? Ma per chi mi hai presa? Per una che imbottisce i suoi scritti di dettagli inutili e che ci mette più di 1500 parole a dirti un concetto? Su, da bravo, se prima hai saltato rimedia. Ti aspetto qui.
Hai visto? I 5 racconti del caffè con tutti i tipi di caffè che ti scivolano dentro. Perché se tu sei qui è molto probabile che tu sia quel tipo di persona: le cose ci provi a fartele scivolare addosso ma alla fine trovano una crepa e ti scivolano dentro. A volte ci hai creduto davvero alla possibilità di ridipingere le pareti dei tuoi visceri con vernice impermeabile e lasciar colare tutto lungo di esse senza che niente potesse penetrare. Ma poi l’impermeabilizzazione non ha funzionato mai.
E poi ci sono i 5 racconti deliranti con tutte le parole magiche che non possono essere tradotte con una sola parola nella nostra di lingua perché parlano una lingua tutta loro, di un pianeta tutto loro, con epoche diverse che sfilano, fianco a fianco, perché ci sono paure, emozioni, sentimenti che sono universali, nel tempo e nello spazio.
L’idea è tirarne fuori dal cilindro uno a settimana per dieci settimane come se fossero conigli troppo impazienti per aspettare Pasqua ma comunque troppo delicati per non desiderare di suscitare un po’ di quel sottile dolore e piacere dell’attesa.
Che idea del Kaizen
Ovvero “come avermi sempre dentro le orecchie oltre che dentro il cuore eppure restare mentalmente sani “
10 minuti al giorno. Per 100 giorni. Che sono più di 16 ore, come se passassimo un giorno insieme, da qualche parte, e io passassi tutto il giorno a parlarti (cosa probabile) e smettessimo di parlare solo per dormire (e sognare di ricominciare). L’idea sarebbe questa, in breve (ché sennò qui arriviamo pure oltre le 2 mila parole e poi ti viene sonno e mi tocca intercedere con Morfeo per farti avere dei sogni bellissimi perché a te ci tengo): l’idea è darti delle pillole di non-saggezza da sommnistrare per via orale. Ah, no, a te le pillole devono rotolarti lungo il condotto aurcolare anche se a me partono dalla bocca. Piccoli file audio. C’è l’inconveniente che io non amo i file audio. Ma sai com’è quando pensi che certe distanze per essere colmate possano aver bisogno di un impegno aggiuntivo? Ecco. Ma questa idea è ancora in forse.
Calamarty: siete le mie sirene preferite…
… Dentro e fuori la rete
Abbiamo già chiacchierato di Calamarty (a proposito… Ti vuoi decidere? Un caffè o un weekend insieme? E le tappe? In che città vorresti Calamo venisse in gita?) ma ora mi è venuta anche un’altra idea in cui far faville facendo sfoggio di quanto siamo un gruppo affiatato:
Chi vuole scrivere un libro in 75 minuti con me? http://t.co/Q3qCzaifW6 su @wireditalia
— Monia Papa (@eudai_monia) 26 Agosto 2015
La mia versione calamosa prevederebbe due ore e mezza e 25 partecipanti: un’ora di brainstorming per decidere trama, personaggi e suddividere i capitoli e poi un’ora e mezza di scrittura in cui ogni partecipante scrivescrivescrive per arrivare a completare il capitolo che gli è stato assegnato (scrivendo circa 2000 parole). La si potrebbe fare anche online, a ben pensarci, prima una bella chattata di gruppo poi ognuno sta solo sul cuor del pc trafitto da un raggio di ispirazione ed è subito libro-esperimento!
P.S. Sì, l’immagine che c’è all’inizio del post è quello che vorrei (più o meno, almeno in questo momento) per la copertina del #Bookaniere. Ma la vorrei proprio così. Animata.
3 pensieri su “Un tuffo dove l’acqua è più tu”