Donne, vodka e gulag (in cui si impacchettano LITBOX)

litbox

C’era una volta Indaco. Non l’aveva scelto lui di essere Indaco. Lo era e basta. Anche se non sempre gli piaceva. Perché era faticoso restare spesso in bilico, sulla punta della lingua, una ballerina che fa la spaccata per toccare con i piedi gli estremi di quel muscolo che in bocca nuota e serpeggia e accarezza la rossa lucentezza delle guance, all’interno, e sbatte contro le perle avana dei denti e non è mai del tutto libre come Cuba anche se si muove eccome per scandire le parole.

Era ciò che era e non avrebbe potuto essere nient’altro. Per questo cercava di non mentire su ciò che era. Perché come puoi mentire su ciò che sei quando ciò che sei è tutto ciò che hai? Così lui aveva ormai smesso di desiderare di essere altro da sé. Aveva accettato di venire a volte confuso, a volte non ben identificato. Mentre tutti nell’arcobaleno identificavano perfettamente il rosso che scoperchiava loro gli occhi e, intenso, colpiva le loro iridi come un istrice che ha perso la ragione e non sa più a che causa, distruttiva, votarsi. E poi l’arancione e il giallo, tutto quel sole che si levava alto in cielo e poi tramontava e rotolava sui prati del verde, come se bastasse un lenzuolo d’erba per seppellire i cadaveri dei germogli abortiti e poi il blu, come se bastasse l’oceano per annegare i gorgoglii dei sogni che non si era mai neanche desiderato partorire.

Qualche volta dicono a Indaco che forse, lui, in effetti non esiste. Un errore di valutazione, uno slancio maggiore intravisto a cavallo tra un colore e un altro colore. Qualche volta gli dicono che forse lui non è esattamente qualcosa ma è un ponte gettato tra due cose che sono vicine eppure lontane. Qualche volta gli dicono che anche ammesso esista nessuno sa bene come rappresentarlo e ciò che nessuno riesce bene a vedere è come se non esistesse. Ma Indaco sa che se lui è un ponte tra due cose allora significa che esiste eccome. Perché siamo quasi sempre più di una cosa e spesso anche più di una per volta. Indaco sa anche che ogni talento è a modo suo un’anomalia, un’alterazione della normalità. Perché la normalità, presunta, è un appiattimento che non è più reale del disegnare una pianura come una linea retta: abbiamo più buche e vette dentro di noi di quante ne possa sognare la nostra filosofia.

Indaco sei tu.

Che leggi.

E che continuerai a leggere questo post.

Donne: il sesso delle cose

A volte scrivo cose che sono maschi. Sai quando sei in fila, fermo da qualche parte, o magari sei a casa da parenti e c’è una donna incinta e insomma tutti le guardano la pancia e a un certo punto qualcuno dice qualcosa del tipo “la pancia è bassa, è sicuramente un maschio!” e tutti i presenti annuiscono e vedi il profilo di quella vecchia zia tagliato dalla luce che filtra dalle persiane in veranda e i capelli di ferro le luccicano e il naso aquilino si staglia sulla luce mentre la testa fa su e giù in segno di neanche tanto tacita approvazione. Ecco, una cosa così.

A volte scrivo cose che sono femmine. Sai quando la suddetta donna incinta dice che ha voglia di limone o di meloni o di qualunque altro gioco linguistico e allora qualcuno magari dice qualcosa del tipo che c’è qualcuno che dice che col succo di limone si può influenzare il sesso del nascituro e tutti vogliono sempre influenzare tutto come se i virus fossero delle medaglie, delle spille bellissime come quella spilla che una volta ho visto su una rivista, avevo tredici anni e quella spilla con un teschio e tutto intorno tanto rosa incorniciata dai capelli di Avril Lavigne mi sembrava una cosa bellissima (credo proprio mi sembrerebbe una cosa bellissima anche ora).

Dopo il post sulla scrittura senza tempo in cui ho presentato le mie imminenti pentalogie ho inviato ai veri Calamisti un’email (se ti reputi un calamista e non hai ricevuto l’email lascia un commento qui chiedendomi di essere aggiunto oppure contattami tramite l’apposito form). Ecco, l’email che ho inviato era sicuramente una femmina. Ma non è stata che la primogenita di una nutrita progenie.

 

Vodka

Voglio raccontarti una storia. Ok, in fondo tu che passi di qui a sentirti raccontare storie ci sei un po’ abituato. E non storie nel senso di scuse ma storiestorie. Ma non si è mai del tutto preparati alle storie. Quindi, dicevo, voglio raccontarti una storia perché le storie sono un po’ come cassetti: io ti do il legno e i chiodi e il martello e un cacciavite italiano o americano (non ho idea di quale sia la differenza) e tu puoi usarli per costruirti il tuo cassetto unendo la colla delle tue esperienze, vissute davvero o solo sperate. Voglio raccontarti una storia perché le storie sono come le persone: o si muovono o muoiono. E io spero sempre che le storie si salvino, che riescano a fare un salto, a continuare a passare di bocca in bocca, di occhi in occhi. Con le persone non sempre nutro queste speranze ma questa è un’altra storia.

Voglio raccontarti cosa è successo ieri notte (che è stata davvero la notte scorsa ma potrebbe essere stata qualsiasi notte quindi non fa niente se non stai leggendo questo post il quattroagostoduemilaequindici. Una notte è “solo” una lunga, meravigliosa, irripetibile sequela di attimi tutti identici a se stessi).

La notte scorsa ho sognato una cosa che è accaduta davvero ma, come spesso accade nei sogni (e spesso pure nella realtà quando rievochiamo i ricordi e ci mettiamo a raccontarli a qualcuno) il sogno è diventato qualcosa di ancora più vivido di ciò che era davvero accaduto e, cosa più importante, è diventato qualcosa di più utile. Così ho pensato che sì, avrai la tua litbox se vorrai (riceverai ulteriori dettagli via email, se sei già nella lista dei Calamisti anonimi o se chiederai di entrarci contattami in qualsiasi modo tu voglia) ma forse più che una scatola sarà una bottiglia.

Perché sì, a un certo punto le storie puoi decidere di provare a smettere di berle. Ma sei sicuro di volerti tenere la sete?

Gulag

Questa categoria devi riempirla tu: cosa stai facendo in modo forzato?

21 pensieri su “Donne, vodka e gulag (in cui si impacchettano LITBOX)

  1. Sei uno SPETTACOLO.
    Vorrei anche io ricevere le prossime email ma per favore non tenerci troppo sulle spine, facci sapere al più presto qualcosa in più sulle litbox.
    Cosa faccio controvoglia? Di sicuro non leggere il tuo blog. Il mio lavoro non mi soddisfa molto e sto pensando di crearmi un’alternativa possibilmente proprio iniziando con un blog ma sono ancora molto confuso.

    1. Le litbox saranno disponibili a breve.
      E il divertimento inizierà già prima di stringerle in tutta la loro meraviglia di pixel perché anche per ottenerle ci si dovrà mettere in gioco!

      Quanto al blogging… La reginetta di Calamo ha parlato con una persona che stima molto di possibili corsi (guarda il post “di corsi e discorsi” se ti va di saperne di più) quindi resta nei paraggi 😉

  2. Io rimando troppo. Procrastinare è forse la peggiore soluzione a ogni cosa perché è ignorare e evitare assieme. Io mi sforzo dicendomi “adesso non posso” oppure “c’è altro da fare che è più importante” ed è vero a volte, altre è vero solo a metà: il valore delle cose e il tempo in cui sarebbe giusto farle non è uguale per tutti. Io sto NON facendo.

    1. La rimandite è quella cosa che poco importa la sua etologia (un perfezionismo strisciante che ti dice di non fare quello che stai pensando di fare finché non potrai farlo perfettamente (cioè mai)? Un’insicurezza neanche troppo latente che ti paralizza? Stiquatsi?): in ogni caso erode le fondamenta dell’azione e ti getta, senza paracadute, in un circolo vizioso fatto di insoddisfazione e incapacità di cambiare le cose.
      (Il calendario magnonico, insieme al quaderno del disappunto, vorrebbe servire anche a aiutare i calamisti a evitare questo)

  3. Cambio filtri! Dando per assunto che quello “tutto aperto a manetta” funziona meravigliosamente perché mi permette di essere davvero IO, ho bisogno di trovarne anche altri per riuscire a stare dietro a tutte le occasioni.

    Le mie giornate che passano (spesso) troppo velocemente tra script, tabelle e grafici a torta, necessitano di un aiuto del sottoscritto per andare più lente così magari riesco anche a godermi altre cose al di fuori del monitor e degli account sugli strumenti del mestiere.

    Io vorrei trovare nella scatola magica dei filtri di Monia (ce l’hai ancora vero?) qualcosa a metà strada con quello che ho, ma vorrei che allo stesso tempo fosse regolabile a seconda delle esigenze e che fosse anche facile e veloce da usare perché potrebbe capitare di dover fare al volo un caffè diverso dal solito.

    Ho provato con la tazza, ma è un filtro troppo “riflessivo”. Ho provato col quaderno del disappunto, ma ne ho riempito metà in poche ore.

    Mi sa che dovrò passarmeli tutti.

    PS: in modo forzato… Già! Magari però ci metto su un po’ di cognac!

    1. (Come mi spingi tu a fare elenchi puntati nessuno mai)

      1) Parli del filtro che ti permette di essere completamente te stesso ma poi aggiungi “ho bisogno di trovarne anche altri per riuscire a stare dietro a tutte le occasioni”. Ora, io ho due punti che mi va di approfondire (li segnerò banalmente come A e B perché non trovo il mio alfabeto greco)

      a) Ma siamo proprio sicuri sicuri che le “occasioni” che ci “costringono” a cambiare filtro siano le occasioni migliori per noi? O meglio, ok, è vero, ci sono momenti e momenti, casi e casi, situazioni e situazioni. E se non ci adattassimo mai perderemmo la qualità forse migliore per la nostra sopravvivenza: la capacità di adattamento che permette all’uomo di non soccombere anche se non ha artigli né veleno da sputacchiare addosso ai nemici (che a volte sono persone, a volte cose, a volte eventi). Ma c’è un ma: credo davvero si debba prestare una grande attenzione al tempo che si vive lontani dal PROPRIO filtro (quello più autentico, quello più giusto per se stessi). Perché se le situazioni in cui ci andiamo a impelagare ci portano sempre lontano da esso forse stiamo costruendo la collana della nostra vita con le perline sbagliate.

      b) Hai presente quando hai una spina, chessò, magari devi attaccare la lavatrice per lavare i famosi panni in famiglia, ma la spina, nonostante i tuoi sorzi, nella presa non vuole saperne di entrare? Non vai a cambiare la lavatrice con la spina. Né, se non è necessario, ti metti a smontare la presa. Semplicemente ti servi di un adattatore. Ecco, diciamo che nel mondo dei filtri questo è un po’ un filtro del filtro, qualcosa che non modifica sostanzialmente l’effetto che ricavi usando il TUO filtro ma che permette di modificare qualche dettalgio così che il risultato sia più efficace rispetto a una certa situazione particolare.

      2) “…Le mie giornate che passano (spesso) troppo velocemente tra script, tabelle e grafici a torta, necessitano di un aiuto del sottoscritto per andare più lente…”
      Se c’è una cosa che ho imparato è che quando non si può agire sul quanto occorre agire almeno sul come. Questa frase va presa per buona così. Almeno per ora…

      3) Tra tazza e quaderno secondo me adorerai il calendario magnonico e forse ancora di più il progetto del kaizen (perché, se effettivamente deciderò di renderlo disponibile, sarà un modo di calamosizzarsi in una forma completamente inedita!)

      1. 1a) Credo che fondamentalmente in ogni collanana ci siano delle perline “sbagliate”… Alcune perché messe li a caso, alcune perché ti distrai e non sei attento a “filtrarle” già quando fai i primi mucchietti nella scatolina e alcune perché oh… A volte ci sta fare il bastian contrario o impuntarsi apposta per qualcosa solo per avere quei 5 minuti di soddisfazione. L’importante secondo me è ricontarle ogni tanto per tenere d’occhio la proporzione rispetto a quelle messe li bene e in caso cambiarle, sostituirle o recuperare aggiungendo più perline giuste. Quanti compromessi eh!

        1b) Un filtro del filtro mi da l’impressione di qualcosa che stringe ancor di più il passaggio delle cose e io invece sto bocchettone non lo vorrei stringere ma solo modificare magari per forma, angolo, potenza etc etc… Volumetricamente invece vorrei rimanesse uguale perché non vorrei che di messaggi ne arrivassero meno o di meno efficaci… Solo dal retrogusto meno “robusto”.

        PS: io prima cambierei la presa!

        2) “almeno per ora”… Cambierò io o mi spingerai a cambiare tu? Magari con quelle mail calamose! XD

        3) il calendario mi pareva di aver letto (speriamo di si) che forse conterrà una ricetta del pasticcere Seme Nero e quindi lo needero’ senza se e senza ma. Gliela strapperai vero? Verooooo?

        Il progetto kaizen invece lo aspetto. Non googlo per cercare info e mi godo la sorpresa che cosi è più divertente!

        E adesso… Con un’espressione molto ToyStory alla Buzz Lightyear…

        Elenchi puntati… Elenchi puntati everywhere! 😀

    1. Una si sveglia.
      Beve il caffè.
      Poi legge un commento di quel matto e per poco il caffè non gli va di traverso dal ridere!
      (Perché, dei problemi di Pervinca ne vogliamo parlare?)

  4. Famme capì.. ma me doveva ariva’ una mail? O so’ fori target/consocrso?. O so’ fori e basta? 😉 p.s. ultima (benevola) possibilità: m’è arrivata la mail ma l’ho saltata come un birillo.

  5. Folletto caro, quello che scrivi tu è Femmina, con la “F” maiuscola di “Folletto Femmina Felicemente Ferrato Fuorviante”. Forse ti sembra che alcune cose siano Maschio, ma credimi, sono Femmina. Tu sei femmina e quello che scrivi lo è almeno il doppio. Hai una bella energia femminile (un po’ contorta, che per starti dietro devi attivare tutte le sinapsi, anche quelle dormienti), che è rosa come tutte le immagini rosate che metti qui e lì, che sa di zucchero filato e luna park, mille luci che ti investono e tanta voglia di divertirti. Sei Femmina, quello che scrivi è Femmina. Le donne che scrivono come uomini sono poche, rare come mosche bianche e dannatamente seducenti.
    Tu sei seducente con la tua polvere di Fata Rosa: tienila stretta, Folletto, che a noi piace così.
    E per inciso, se non sono nella lista dei tuoi Calamisti, devi spiegarmi il perché! (^.-)

    1. A “Hai una bella energia femminile (un po’ contorta, che per starti dietro devi attivare tutte le sinapsi, anche quelle dormienti)” ho capito che mi hai capito e ho sorriso. Come una grande ruota panoramica che resta grande anche se non sei più piccolina e tutto è ridimensionato.

      Dettaglio pratico: wordpress ha un problema. Permettendo alle persone con un blog wordpress di iscriversi direttamente con un click non di tutti ho l’email. Quindi, cosa ho fatto: in primis ho inviato l’email a quelli iscritti via email + quelli che hanno partecipato a #scrittura28+ commentatori molto assidui/gente che spesso mi manda email. Ma qualcuno potrebbe essermi sfuggito. Ho poi un’altra lista di persone iscritte ma che non hanno lasciato l’email che penso di contattare per dir loro “ehi, ciao, sì sei iscritto ma se non mi dai l’email finisce che ti perdi tutti i vantaggi fantasmagorici dell’iscrizione. Brutto vero? Rimediamo!”. Però tu eri con noi sul vascello di #scrittura28, no? Quindi, se non ti dispiace, dai anche tu un’occhiata più approfondita alle tue email? Se proprio non c’è la mando volentieri e ti aggiungo alla lista! 😀

  6. Monia,
    tu mi chiedi del Gulag ed ecco cosa mi viene in mente…

    Il nome rievoca nella pronuncia un suono gutturale, un luogo angusto, una caverna buia, dove tale suono può nascere e cessare senza uscire mai.
    Invece può anche uscire e assumere la forma di un urlo di ribellione, un urlo di liberazione. Ribellione al silenzio. Liberazione da quel luogo che vuole ridurti al nulla, ridurti al silenzio, sovrastato da suoni gelidi e assordanti o caldi e ammalianti come i canti delle sirene. E tu puoi smettere di sentire te stesso, sentire chi sei, e credere di essere ciò che i suoni vogliono che tu sia: un suono atono, sordo, un silenzio senza eco. Finché tutto è uguale e tu non sei più nessuno. In quel momento devi far sentire la tua voce, non arrenderti a essere monotono silenzio, monocromatico colore, piana superficie, insipido cibo, etereo odore. Non vuoi combattere, non sei un belligerante, ma devi sforzarti di non arrenderti, non devi lasciare che il luogo ti racchiuda nel buio e smorzi la tua voce così che, seppur ci sei, è come se non esistessi, senza forma, senza ombra, senza voce, senza identità. A volte, semplicemente, bisogna sforzarsi di essere contro ogni avversità.

    Probabilmente sono andato fuori tema 😉 ma mi piace essere così.

    A proposito di e-mails, hai ricevuto la mia parola?

    1. Una “caverna platonica” reinventata dal nostro Renato non può mai essere fuori tema! Sono sempre più convinta tu potresti adorare una sorpresa nell’annuncio della litbox perché è un’idea per aiutare a “far sentire la tua voce”…

      Parola ricevuta, mordicchiata, ingoiata, metabolizzata (?) e nuova email giocosa appena inviata! 😀

  7. Come spesso mi accade, mi ritrovo qui a essere inattuale, fuori tempo e fuori luogo, ma se sono qui, allora un motivo c’è (sospetto più di uno). G, G, gu gu gu gulag, che parola. sa di conato, di corrosione e odio. ma questa è un’altra storia. il mio gulag è il gioco del nascondino. mi nascondo talmente bene che fatico a ritrovarmi. e, quando finalmente mi intravedo, scappo. e, quando finalmente ho finito il fiato e mi fermo, ecco, allora è diventato buio. troppo tardi.

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