Pianto

 

Pianto
La gente è brava
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Ho in testa una testa che sta bene su tutto come il prezzemolo ma invece che di prezzemolo è piena di basilico e spero che tu sia per me il vaso.

Ci sono persone che fanno solchi e solchi che fanno le persone

Se c’è un aratro puoi stare pur certo che ci sarà anche un solco. Perché gli aratri sono un po’ come gli uomini: per quanto a volte sembrino proprio impegnarsi a non voler lasciare tracce di sé in realtà, in un modo o nell’altro, lasciano sempre un segno. Quindi se c’è un aratro c’è la sua impronta e tu un aratro ce l’hai eccome. Ma certo che lo so che te ne stai lì a rimestare la terra che ti impolvera la testa come se a furia di rimestare la solita minestra riscaldata che ti costringi a mangiare possa sembrare più buona. C’è che fa male smuovere ancora una volta il terreno fino a sentirsi davvero mancare la terra sotto i piedi e ritrovarsi a chiedere se a un certo punto questa deriva porterà a qualcosa oltre alle continue spaccature. Eppure a volte bisogna far sanguinare un po’ gli angoli angusti del proprio giardino per preparare il sottosuolo a accogliere il sangue di un’altra semina con tutte le sue memorie.

“Da oggi io mi chiamo Lira”

Solleva l’indice. Ha il colore del freddo e dell’inchiostro inumidito dalla saliva di quando giri le pagine di un libro con le pagine che piangono e mentre leggi ti spezzi le unghie coi denti e nell’aria, troppo fredda, si congela la comunanza delle tue dita che unisce le tue labbra alle parole stampate. Ma al tempo stesso le divide. L’indice  me lo punta addosso.

Oh, hai capito? Li-ra”

Ti fissa perché lei ha preso il suo nome e ora addosso non ce l’ha più. Se l’è sfilato di dosso come l’anello di plastica che un giorno le hai messo all’anulare sfiorando le pellicine mordicchiate e impregnate dell’odore delle gomme da masticare per i palloncini fatti esplodere bucandoli con le dita. L’ha sputato e ora ha il nome dei soldi, ché tanto il ferro ha lo stesso sapore del sangue, e ha il nome di uno strumento musicale, che tanto anche le note hanno quel gusto lì, spesso. A volte troppo. Spesso. Sbuffa.

“Lira per il significato che ha in latino, non per quello che stai pensando tu. Cretino”

Ho 15 anni sono in classe e l’unica lettera che mi ricordo è l’omega perché mi fa pensare al fondoschiena di Milena. Che ora si chiama Lira. O forse si è sempre chiamata in un altro modo ancora che ancora nessuno conosce ma che quando Milena/Lira scoprirà sarà come un’epifania. No, allora non avrei mai detto “epifania”. E neanche “fondoschiena”. E l’omega neanche c’entra niente col latino. Sì, anche allora lo avrei confuso col greco.

“Lira significa solco. Cioè tu hai un terreno, ok? Sei un contadino. Lo so che tu non reggeresti un solo giorno nei panni di un contadino. Ma immedesimati. Sei un contadino, hai un aratro e siccome devi seminare prendi l’aratro e fai un bel solco. Perché dici <<senza Lira non (c’è) pianto>>”. 

Morale della favola: “delirare” deriva da de lira. E de lira deriva dal non volerne sapere di stare dentro il seminato, dal voler, ostinatamente, seminare fuori dal selciato.

“Se pareba boves,
alba pratalia aràba,
et albo versorio teneba,
et negro semen seminaba”  

 

“Davanti a sé teneva i buoi,
arava prati bianchi,
e teneva un aratro bianco
e seminava un seme nero”

Ogni volta che un pastore errante porta a pascolare caratteri mobili a un certo punto si ferma e si chiede come diventare ricchi (sfondati nell’Asia emergente) e si risponde che per riuscirci basterebbe sapere come scrivere un best seller (anche in più di 57 giorni e senza necessariamente essere aiutato da degli scarafaggi). Ma forse prima ancora servirebbe sapere come diventare uno scrittore (o come evitarlo a tutti i costi). Perché c’è già un mondo di cose da guadagnare leggendo. Ma ce n’è pure un mondo da guadagnare scrivendo. E il pastore errante pensa che se solo fosse nato islandese non si ritroverebbe a domandare al suo riflesso “ma io voglio scrivere un libro? E se lo voglio scrivere forse mi serve una vacanza, che poi sarebbe come tornare a un’ovile di pecore nere che si incontrano e fanno un ritiro per scrittori per far diventare latte tutto il nero che hanno dentro?”. Se fosse un islandese avrebbe la Natura con cui dialogare e le potrebbe raccontare tutte le storie che vorrebbe scrivere e tutte le storie che vorrebbe essere, potrebbe parlarle di tutte le cose che la notte non lo fanno dormire, come se avesse messo radici nel suo cuscino una scatola degli incubi (che poi esistono le beauty box quindi non mi capacito di come non esista una scatola tutta pensata per gli scrittori che sono pure lettori e voraci consumatori di caffè, tè, bevande calde in generale e poi hanno sempre le mani fredde
perché anche d’inverno non smettono di battere tasti e ogni volta che un’idea li prende non sempre hanno dove scriverla e allora si scrivono anche sulle braccia e ogni volta, con le dita, afferrano le maniche del maglione e lo tirano più in basso, come se la lana dovesse a tutti i costi intraprendere un viaggio alla fine del loro avambraccio, e ancora più giù, ancora più in basso, oltre i polsi, fino a coprire le mani, perché non c’è cosa più sconveniente da farsi trovare addosso dell’inchiostro.)

(E il nome DELIRA segnatelo)16

 

 

12 pensieri su “Pianto

  1. Io lo so che mi devo fidare di Monia. Se dice che impazzisco è vero. E non è vero perché lo faccio quando lo dice, è vero perché lo faccio perché ha ragione. E siccome ha ragione io mi fido e la seguo anche fuori dal solco, anche se a dir la verità (perché Monia è sincera) il suo solco esce dai solchi e li interseca e li unisce in un pentagramma, e noi siamo piccoli semi neri, note da suonare e cantare. E allora mi unisco al coro per far sentire la mia voce, fatta di parole scritte al suono della penna sulla carta sul ritmo dei tasti tamburellati dalle dita sulla tastiera.
    Ingoio la mia caramella, mi lancio nelle danze del mio rave d’inchiostro, seguo il rubiconiglio (Bili-rubina) giù nella sua tana a cercare la regina di Calamo.
    Sperando che (non) mi faccia perdere la testa!

    1. A me Alice da piccola metteva un sacco di inquietudine. Quindi dato che sono fatta (anche) di zucchero filato e giostre inquiete non posso che sentirmi a mio agio in questo lunapark che è il tuo commento.
      (Grazie)

  2. La cosa bella in tutto ciò è che per come mi piace sbirciare in mezzo a queste pagine pixellate con tanta delicatezza (per disturbare ovvio) io alla storia del seminato nemmeno ci pensavo.

    Solo il fatto di poter avere le chiavi di tutte le stanze di questa villetta fighissima molto Victorian Style per poterle aprire e trovare sempre salottini fantastici con dolcetti e ottimi argomenti di lettura (nonché interpreti perfetti di questi tempi ormai andati) a me fa sembrare quella scatola degli incubi color lavagna una bella confezione regalo di biscottini assortiti, tutti coperti e senza la possibilità di capire con cosa sono fatti…ma tutti pronti a darmi quella consapevolezza che in ognuno sarà presente quel poco di cioccolato che adoro e che renderà il mio assaggio ancora più lieto.

    PS: e poi che c’è di male a scriversi addosso? Se non lo faccio io mi sento IO…ecco 😉

  3. Ogni scrittore vuole trasportare i lettori lungo quel solco, quindi piuttosto che seminare da tutt’altra parte, io direi di solcare il terreno con curve, ghiribizzi, volute, e poi saltare, così nascono virgole e punti anche nel terreno. Poi ci vuole la pazienza del contadino nel procedere con le stagioni, scrivere con calma e revisionare con saggezza, i giorni non contano, la scatola degli attrezzi ognuno la riempie con i suoi. Il dono più grande a volte è proprio una scatola vuota da poter riempire.

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